giovedì 27 luglio 2017

Intervista con Esteban Villalta Marzi

Era già da un bel po' che volevo intervistare Esteban Villalta Marzi, uno dei più brillanti artisti contemporanei e massimi esponenti del movimento di pop art europea, ma non si riusciva mai a trovare il momento giusto. Ed ecco che finalmente ci siamo incontrati alla vigilia delle due sue personali a Napoli e Lima. Esteban ci ha invitato a casa sua, in pieno centro di Roma, qui ha anche l'atelier dove lavora. Con lui c'era anche la sua "mujer" spagnola, la nota direttrice creativa di pubblicità Patricia Pascual Pèrez-Zamora che dal 2013 dirige anche la sua carriera artistica dal punto di vista pubblicitario.



Quello che amo delle persone creative è che sono completamente fuori dagli schemi, originali ed imprevedibili, non sai mai cosa aspettarti da loro. Esteban ha solo confermato questo mio pensiero. Non ha solo risposto a tutte le mie domande, ma ha anche accettato di posare per un photoshooting nel suo atelier e poi ci ha sorpreso tutti preparando un pranzo da chef stellato - pasta allo scoglio ad arte, meglio di tanti ristoranti. Confermando che le persone con talento sono talentose in tutto. Così il nostro incontro è diventato per me subito indimenticabile e molto personale.





Metà italiano e metà spagnolo, in un primo momento Esteban non mostra affatto l'esuberante temperamento mediterraneo e anzi sembra quasi un po' timido. Ma quando cominci a parlare con lui, esce fuori una persona allegra e socievole, con una vita ricchissima e colorata, piena di eventi e ricordi. Esteban è nato a Roma nel 1956 nella famiglia del pittore spagnolo Mariano Villalta. Si è diplomato alla Accademia di Belle Arti a Roma. Ed è proprio da qui che cominciamo la nostra conversazione.

Esteban, allora possiamo dire che già da ragazzino sapeva che voleva fare questo mestiere.
Sì, mio papà era pittore ed io già da piccolo dipingevo, disegnavo.

Quindi praticamente non aveva mai i dubbi su cosa fare nel futuro.
Esatto! Però all’Accademia ho studiato scultura. Ho cominciato con la pittura ma poi ho visto che erano tutte cose che già conoscevo e così sono passato alla scultura. Allo stesso tempo mi ero iscritto anche ad architettura, volevo abbinare tutte e due cose, ma poi mi sono fermato alla scultura.

E adesso lavora ancora con la scultura?

No, la lasciai perché è troppo lenta, difficile cambiare idea, io sono più immediato.

Quanto impiega per fare un quadro di dimensioni medie?

Una settimana – 10 giorni. Poi dipende ovviamente, non è sempre la stessa cosa.

Ha un orario di lavoro?

Sono molto libero, a volte dipingo di notte, a volte la mattina presto.




Quanto conta per un artista essere disciplinato, puntuale, costante?
Devi essere molto indisciplinato! Altrimenti non sei creativo, diventi un impiegato.

E quando deve produrre tanti quadri, magari per una mostra o su ordinazione?
Allora ricevi un input, lavori di più in quel periodo, sei più motivato.

La motivazione diventa l’ispirazione?
Sì, sicuramente, perché fai delle cose nuove.

In generale quali sono le cose che La ispirano?
Tutto quello che vedo nel mio quotidiano: le persone, le loro storie, gli oggetti, non per niente faccio pop art. Il culto del feticcio, il culto per la merce. E poi metto tutto in corto circuito e mescolo tutto questo con il barocco. Quello che piace a me è impattare contro lo spettatore, fare dei quadri d’impatto. Ad esempio, io faccio con i fumetti la stessa cosa come Tarantino con il cinema che parte dai B movies che non rientravano nel sistema hollywoodiano li remixa e crea dei capolavori. Nel cinema mi piace il momento culminante o quel momento che ti fa capire tutto e ti inchioda. La stessa cosa anche in pittura, cerco di catturare lo spettatore.

E i viaggi La ispirano?
Mi piacciono, ma per rilassarmi, per stare bene. Cerco di prendere solo per me quel momento, non per il lavoro.




Quanto è importante per Lei essere compreso da chi guarda le Sue opere, far arrivare il Suo messaggio? Oppure l'importante è la scossa emotiva e lascia che lo spettatore decida da solo che cosa vedere nei Suoi lavori?
Per me l’importante che il mio quadro tocchi lo spettatore. Prima arriva l’impatto e poi la lettura che può anche non corrispondere esattamente al mio messaggio iniziale. L’importante è se piace o no, l’emozione, l’elettricità che trasmetti. Spostare, scuotere, sorprendere lo spettatore, ecco che cosa voglio. 

Ha mai avuto dei punti di riferimento nell'arte?
Sì, certo. Quando cominciavo con l’astratto, il mio riferimento era la pittura spagnola, Manolo Millares, Joan Mirò, ho addirittura fatto la tesi sui quadri di Mirò e poi ho fatto una installazione e una personale nella Fondazione di Joan Mirò a Palma di Maiorca.

Tra gli altri nomi ci sono Andy Warhol, i graffitisti americani che ho avuto il modo di conoscere negli anni 80 a Bologna quando vennero portati da Francesca Alinovi, la famosa critica d’arte, era la prima che portò gli artisti newyorkesi contemporanei in Italia tra cui Keith Haring.

E adesso si interessa di arte contemporanea? Segue altri artisti? Frequenta le mostre, le Biennali? O al contrario cerca di essere distaccato per non essere contaminato?
Sì, assolutamente, vedo tutto, frequento tutto, vado alle inaugurazioni, mi interessa tutto. Non ho paura di essere contaminato, ormai ho il mio stile e linguaggio pop.



Non ha mai avuto un momento in cui avrebbe voluto mollare tutto?
É un mondo difficile, sei sempre in prova, c’è chi non ce la fa e molla tutto, cambia mestiere. Io non ho mai avuto in mente di smettere. C’è stato un periodo negli anni 80 quando mi piaceva essere un artista multimedia, però sempre con la pittura. Allora facevo dei graffiti, collaboravo nel mondo della moda, dipingevo sui vestiti. Per fare questo lavoro bisogna essere coraggiosi e non permettere agli eventi della vita e alle persone di farti influenzare.

Si sente più italiano o spagnolo?
Spagnolo, ma non lo scrivere, siamo in Italia (ridiamo tutti – ndr)! Seriamente, unisco in me le due culture, ma quella che forse esce di più è quella spagnola. Unisco l’idea drammaturgica del mondo spagnolo con il teatralismo narrativo italiano. E come trait d’union tra queste due culture metto il barocco.




Ho vissuto a Madrid per tanti anni. Ho avuto la borsa di studio nella “Casa de Velàzquez”, ho fatto parte del movimento artistico della “Movida Madrilena”, lavorato con la prestigiosa galleria di Juana de Aizpuru, partecipato alla prima “Biennale di Arte Mediterranea” a Barcellona insieme ad artisti come Andrea Pazienza, Pedro Almodovar, Alberto Garcia-Alix, Eva Liberty, Carlos Ceesepe, Fabio McNamara. Con alcuni siamo diventati amici che frequento ancora. All’epoca Madrid era molto divertente. Mi ricordo che tornavo a casa dalle feste a mezzogiorno del giorno dopo, riposavo fino alle 6 di sera, poi dipingevo fino a mezzanotte e dopo mezzanotte uscivo di nuovo.

Altro che New York, la città che non dorme mai!
Infatti, Madrid era fantastica! C’era un famoso slogan “Madrid me mata, Madrid mi uccide!”. Era molto dinamica, molto creativa, molto vivace.


E oggi, secondo Lei, esistono dei gruppi di artisti, dei movimenti, come negli anni 80-90?
No, oggi tutti lavorano più a livello individuale. Erano altri tempi, oggi sarebbe impossibile. In Spagna era finito il regime di Franco, in Italia il periodo delle contestazioni politiche. Ribellione, creazione, potere all’immaginazione questi erano le parole chiavi di quei tempi. Era bello, ma con il tempo le cose si spengono. Diciamo che dopo quel periodo c’è stato un gap generazionale.

Era un po’ come Parigi anni 20, un periodo d’oro.
Sì, esatto! Tra l’altro ho vissuto anche a Parigi. Ho avuto una borsa di studio a Ginevra al Musèe d’Art et Histoire. É perfetta per gli studi, per dipingere al lago, ma diciamo che non è una città molto divertente. Così ogni giovedì prendevo un TGV per andare a Parigi dove avevo preso un piccolo appartamento, molto parigino, al primo piano, con una scala stretta. Li avevo molto amici. E anche i galleristi francesi erano molto disponibili.

Quanto è importante la figura di gallerista per un artista, nella sua carriera?
Una volta era molto importante. Oggi non è più così. C’è la crisi, le gallerie chiudono.

Se uno vuole vedere e magari acquistare le Sue opere, come può fare?
Patrizia: Ci può contattare on line dal sito web e tramite i socials (pagina Facebook e Instagram). Anzi, grazie a questi ultimi strumenti si è stretto molto il rapporto con i fans, è diventato più facile socializzare, sopratutto con quelli che non sono a Roma o in Italia. É bello vedere che la tua arte diventa universale, globale. Questa è la cosa positiva dei canali social. E poi c’è lo studio a Roma, eventualmente si può mandare la richiesta per un appuntamento. Inoltre organizziamo per alcuni nostri amici e amici degli amici gli Open Weekend una o due volte l’anno. É l’occasione per vedersi, parlare e anche vedere delle opere.

Patricia Pascual Perez-Zamora

Qualche parola sulle Sue prossime mostre "Carattere POP" a Napoli e Lima.
A Napoli la mostra inizia il 7 settembre, nel bellissimo spazio, al PAN Palazzo delle Arti. Sono contento perché a Napoli ho anche vissuto, negli anni ‘80 lavoravo con un gruppo che si chiamava TamTam portato avanti da Lorenzo Mango. Eravamo due romani e 4 napoletani. Avevamo occupato una ex-scuola e li avevamo gli studi dove rimasi per 6 mesi dipingendo. E sotto avevamo aperto anche una galleria che si chiamava “Idra Duarte”, fu molto famosa in quegli anni a Napoli, la prima galleria autogestita. Dopo sono tornato e fatto altre personali. E adesso finalmente dopo tanti anni ritorno, con molto piacere, in uno spazio enorme, che mi piace molto, dove posso presentare i lavori che piacciono di più a me, le mie opere migliori passate e presenti. Sarà un percorso storico attraverso i vari miei cicli pittorici e personaggi storici.

Per Lima sono anche molto contento. Un altro spazio enorme, sempre un museo. É la mia prima esposizione in Sudamerica. Non conosco Lima, sarà un’ottima occasione per farlo.



Vorrebbe dare un consiglio ai giovani artisti, per chi vuole entrare nel mondo dell’arte?
No no, non posso dare consigli (ride – ndr)!

Invece il miglior consiglio che abbiano mai dato a Lei?
Mi ricordo mio padre che mi diceva: “Che fai, vuoi dipingere? Ma lascia perdere!” (ridiamo tutti fragorosamente – ndr). Però a quei tempi di artisti, pittori non ce n’erano tanti. Eri più rispettato, si vendeva più facilmente ed era una cosa romantica, la pittura e l'essere pittore.

Scherzi a parte, dopo Suo padre l’ha appoggiato?
Sì sì! Purtroppo mio papà morì molto giovane, era un amico per me.




Per concludere qualche parola sul Suo legame con Roma. Che cosa ama o non ama particolarmente di questa città e della sua gente?
Roma è cambiata molto. Mi piace, ci sono tanti posti carini, ma quello che oggi davvero mi da fastidio è questo turismo di massa, il centro è sempre affollato, non puoi camminare per strada, ci sono tanti pullman in giro. Campo dè Fiori non è più quello di una volta, non ci sono più le bancarelle quelle vere, il mercato prima era tanto divertente, la gente che gridava dai banchi, ora tutto è in funzione di turisti. Non ci sono più i negozi e le botteghe degli artigiani, ora ci sono solo dei mini-market e negozi di souvenir. Sembra che lentamente spariscano le cose autentiche. 

Qualche Suo posto preferito a Roma?
Le mie zone a Roma sono Campo dè Fiori e Trastevere. Mi piace Camponeschi a piazza Farnese, è un posto molto tranquillo dove si incontrano anche gli artisti. Fanno dei buonissimi Margherita, il servizio è ottimo, la gente è molto simpatica. Poi un baretto in Largo dei Librai e un altro a San Calisto in Trastevere, sono quei posti che non sono mai cambiati, rimasti uguali nel tempo. A cena mi piace andare all’Antica Pesa, un posto molto ben frequentato, li conosco dai tempi di mio padre, hanno una bella collezione d’arte e anche un mio murales e dei miei quadri. 


Fotografie - Antonio De Paolis

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